venerdì 6 luglio 2012

Tre domande a Eloise Ghioni

Una peculiarità del tuo lavoro è l'indagine accurata delle relazioni tra territorio, memoria e identità. Nella tua ricerca prevale l'introspezione, connessa alla scoperta del lirismo dello spazio intimo e vissuto, o l'analisi di matrice antropologica del luogo, inteso come principio di senso e materia di condivisione per la comunità che lo abita?
Le due tematiche sono strettamente correlate, in quanto io, singolo individuo facente parte di una società, porto il mio contributo intimo alla comunità attraverso le mie esperienze personali, ma al contempo le mie esperienze nascono nel contesto sociale della comunità a cui appartengo ed alla quale faccio riferimento nella mia indagine. In fisica questo processo si definirebbe con il termine di "osmosi".

Nelle tue opere il rigore formale dell'arte antica si fonde con l'estetica minimale del Novecento. Quali suggestioni hanno contribuito all'elaborazione del tuo personale alfabeto di segni?
Difficile stabilire come, quando o perché una suggestione eserciti il proprio influsso sulle modalità espressive. Il background personale si amplia con il tempo e molte possono essere le sollecitazioni esterne che contribuiscono a formarlo, senza dimenticare che il gusto personale determina in modo arbitrario ma significativo interessi e propensioni.
Personalmente sono sempre stata attratta dai manufatti antichi e dal rapporto che le civiltà che li hanno realizzati avevano con la natura. In particolare mi interessano le civiltà precolombiane, mesopotamiche e megalitiche europee. Per mia fortuna sono nata e cresciuta in un'oasi naturalistica, dove il rapporto tra uomo e natura aveva, ed ha tuttora, un connotato sano. Avere il privilegio di crescere in un contesto sociale e territoriale così inclusivo ha sicuramente determinato un'attenzione particolare verso ogni elemento che compone il mio orizzonte di vita, fatto di persone, di oggetti, di paesaggi, di sensazioni e di esperienze. Di conseguenza è nata in me una sana curiosità nei confronti dei processi di costruzione dell'identità individuale e collettiva.

In una recente intervista (Tema, n. 4, dicembre 2011) hai definito la tua ricerca artistica come una "slow art" concettuale, facendo riferimento alla necessità di tempi di fruizione prolungati per una lettura del tuo lavoro in grado di cogliere la stratificazione delle informazioni, che si sovrappongono in un lungo processo di sedimentazione nella fase creativa. In tempi in cui le nuove tecnologie e la sovrabbondanza comunicativa limitano gli spazi per l'osservazione attenta, costringendo spesso a interpretazioni superficiali basate su uno sguardo distratto, ritieni che sia importante per il pubblico e per l'artista stesso recuperare un rapporto più disteso con il tempo?
Assolutamente sì! Purtroppo si è perso il valore del tempo, non solo nell'ambito dell'arte contemporanea, ma in ogni frangente della vita. In una sola generazione abbiamo completamente disimparato l'importanza e l'assoluta necessità del fattore tempo. Senza addentrarmi nelle varie sfumature che una diversa concezione del tempo può implicare a livello soggettivo, credo siano evidenti le conseguenze di una fruizione "fast", mediata dagli strumenti tecnologici di uso quotidiano. Viviamo in maniera frenetica e ci rapportiamo al mondo con la stessa velocità. Ecco dove nasce il "bug": non tanto nella rapidità di esecuzione, quanto nella superficialità con la quale si compie ogni azione. È un dato oggettivo che gli esseri umani siano fatti di carne, ossa e liquidi: non siamo composti solo da connessioni neurochimiche. Il nostro fisico necessita di tempo, mentre noi stiamo negando culturalmente e socialmente questo inalienabile bisogno. Tra non molto sarà impossibile sostenere questo ritmo e sentiremo l'esigenza di riprenderci il tempo negato.

Per approfondire:

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