venerdì 20 luglio 2012

Tre domande a Luigi Paolo Finizio

Nel suo recentissimo Elogio dell'astrattismo (Milano, Mimesis, 2012), il ricorso a linguaggi visivi basati su forme non oggettive si configura come antidoto spirituale e immaginativo alla diffusa passività del vedere nell'esperienza quotidiana, generata dalla prevalenza di strumenti riproduttivi (come la fotografia o la televisione) e dal conseguente dominio della cultura visivo-informazionale, delle illusioni digitali e delle realtà virtuali in cui l'uomo contemporaneo è immerso. L'ermeticità dell'astrattismo rappresenterebbe, dunque, uno stimolo per il pensiero: dobbiamo, in altre parole, tornare a imparare a guardare più con la mente che con gli occhi?
Non solo l'astrattismo naturalmente, e il mio saggio fa leva proprio su tutti i linguaggi capaci di rifare la realtà, la sua comune evidenza. L'astrattismo, in plurime coniugazioni, è una forma espressiva del tutto acquisita e la sua pratica, ormai anche contaminativa di altre forme espressive, è molto diffusa geograficamente e culturalmente sul nostro pianeta. E ciò che la distingue in termini comunicativi è che prima di offrire il suo possibile messaggio interroga lo spettatore. Certo, ogni arte interroga il suo spettatore, il suo fruitore. Tuttavia come lo fanno, in modo radicale, le forme dell'arte astratta costituisce, ancora oggi, a fronte di qualunque avvenuta acquiescenza ad esse di sensibilità e cultura, la differenza di linguaggio, la condizione più spinta di coinvolgimento espressivo. E, per converso, anche la condizione più netta di rigetto, di non consenso e godibilità. Mai comunque di passiva e ipocrita ricezione, come spesso oggi in atto in tanta produzione e fruizione nelle arti visive (e non solo).

L'astrattismo, meglio di ogni altra forma espressiva, riesce a dialogare e a integrarsi con una visione scientifica del mondo e con il pensiero matematico. La proiezione conoscitiva verso l'ignoto può rappresentare, nell'arte come nella scienza, un fattore di potenziamento degli strumenti di comprensione del reale?
Nel dare alle stampe il saggio fui affascinato, come altri, dalla scoperta dei "neutrini". Fui impressionato dall'idea che cogliendoli, nel loro qui e ora, oltre la velocità della luce si collocano nel buio, nell'ignoto che era proprio l'input del mio discorso, da Malevič a Fontana. Ora si è fatto avanti il "bosone" di Higgs che, come ci fanno intendere, sta in una struttura aperta, in grado di descrivere ogni forza e materia a-gravitazionali. Una struttura empirico-concettuale capace di contenere l'ordine e il caos, la geometria e l'informe e che mi fa ancora pensare a Fontana, al suo spazialismo, al suo buco quale infinito. Come sempre, è guardando alla scienza dall'arte, e non viceversa, che ne viene qualcosa di creativo. I modelli della scienza sono falsificabili e provvisori, quelli dell'arte aspirano ad essere più veri e duraturi. Di qui un comune e diverso approdo conoscitivo: con la scienza apprendo e mi adeguo, con l'arte apprendo e mi libero.

In uno scenario che sembrerebbe preludere a un superamento della postmodernità, è più forte che mai il rischio di scivolare in una comunicazione che vinca sul messaggio, appiattita sui dati di realtà, dominata dalla denotazione e dalla perdita di senso nel banale, priva dell'ambigua ma vivificante forza espressiva della connotazione. Condivide l'idea che nuovi percorsi di ricerca artistica possano nascere dalla necessità di coniugare le istanze del nuovo realismo con una "verità" espressiva che non rinunci a tradurre l'ineffabile in forme a-figurative?
Si discute da tempo e ci siamo dentro senza margini nel predominio della comunicazione sul messaggio. È una grande conquista, tutta flagrante, dell'umanità cui indubbiamente, prima o poi, si saprà reagire con intelligenza. Sta qui forse l'insorta questione di un nuovo realismo che sembra inibire l'astrazione, l'interpretazione verso la realtà. Ma è condizione antropologico-culturale in cui l'arte, a beneficio del messaggio e delle sue incondizionate forme di rappresentazione, non ha che da agire e non certo adeguarsi. La mia perorazione dell'astrattismo, lontano da velleitarie riproposizioni di poetica, ha questo fondo di principio. Il postmoderno è in sostanza un disincanto, ma per quanto smagati, senza confondere aspettative con illusioni, non potremo fare a meno del mistero, della magia nell'arte.

Luigi Paolo Finizio, critico e storico dell'arte, ha insegnato nell'Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, Napoli e Roma e ha tenuto corsi in varie Università italiane. Tra le sue pubblicazioni: L'immaginario geometrico, Napoli, Istituto grafico editoriale italiano, 1979; Produzione del senso e linguaggio, Roma, Bulzoni, 1980; Arte linguaggio e senso, Roma, Bulzoni, 1986; Il MAC napoletano, 1950-1954, Napoli, Istituto grafico editoriale italiano, 1990; L'astrattismo costruttivo – Suprematismo e Costruttivismo, Bari-Roma, Laterza, 1990; Dal neoplasticismo all'arte concreta, 1917-1937, Bari-Roma, Laterza, 1993; Moderno antimoderno – L'arte dei preraffaelliti nella cultura vittoriana, Napoli, Liguori, 2004; Avanguardia a Napoli – Undici dell'astrattismo, Napoli, Edizioni Centro di cultura contemporanea Napoli c'è, 2010; Elogio dell'astrattismo, Milano, Mimesis, 2012.

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