sabato 30 marzo 2013

Percorsi piranesiani

Fiona Tan presenta a Roma in anteprima mondiale il suo lavoro più recente, l'installazione video Inventory. Insieme alla curatrice della mostra, Monia Trombetta, ha ideato per il suo progetto espositivo al MAXXI un allestimento in grado di dialogare con gli spazi fluidi e dinamici di Zaha Hadid. Il foyer del secondo livello del museo è stato scelto dall'artista per ospitare una selezione di riproduzioni digitali dalla serie di incisioni Carceri d'invenzione di Giovanni Battista Piranesi. Le stampe dell'architetto veneto rappresentano la principale fonte di ispirazione per molte delle opere in mostra. Da un lato, le carceri piranesiane riprendono il tema cardine di Correction (2004), il lavoro esposto nella sala Claudia Gian Ferrari, che circonda l'osservatore con oltre trecento ritratti filmati di guardie carcerarie e prigionieri americani. Dall'altro i capricci di scale, arcate e capriate di Piranesi entrano in relazione con gli intrecci di rampe del MAXXI, guidando lo sguardo intorno a scoprire i coinvolgenti spazi architettonici ideati da Zaha Hadid. Fiona Tan ha inoltre affiancato le versioni originali e quelle finali delle tavole di Piranesi: l'autore infatti, non soddisfatto del risultato, tornò a più riprese sulle lastre, in un processo di rielaborazione grafica durato in alcuni casi più di vent'anni. La perdurante insoddisfazione di Piranesi per il suo lavoro, che cercò costantemente di migliorare, è un chiaro esempio della complessità del procedimento di traduzione del reale per mezzo delle immagini, che avviene attraverso la mediazione creativa dell'artista. Fiona Tan analizza il rapporto tra realtà e opera d'arte nelle tre video installazioni esposte nella Galleria 5 (Inventory, 2012; Cloud Island, 2010; Disorient, 2009): ne deriva una complessa riflessione sul vano tentativo di rendere permanente ciò che è transitorio, giocata sul filo della memoria, per sottolineare l'impossibilità del raggiungimento di una perfetta traduzione della realtà con qualunque medium.
Sempre nella Capitale, in questi giorni, l'Istituto nazionale per la grafica è sede di un'interessantissima personale di Marco Tirelli: Immaginario, a cura di Ludovico Pratesi. La mostra presenta al pubblico un aspetto inedito della ricerca dell'artista, puntando l'obiettivo sul processo creativo più che sull'opera conclusa. Disegni, schizzi, progetti, bozzetti, tavole fotografiche invadono le pareti delle sale di Palazzo Poli, in un sovraffollato allestimento che svela l'intero repertorio iconografico su cui si fonda la ricerca di Tirelli e offre allo sguardo curioso dell'osservatore un eccezionale archivio visivo. Il flusso continuo di immagini si riversa, come in un serbatoio, nei diari dell'artista, esposti per la prima volta e ricchissimi di scritti, pensieri, suggestioni, schizzi e impressioni. L'esposizione dimostra quanto Tirelli sia stato influenzato da maestri dell'incisione quali Morandi, Dürer e Rembrandt; ancora una volta, Piranesi si ripresenta come modello ideale. Nel testo del comunicato stampa della mostra è riportata una significativa dichiarazione di Tirelli: "La mia attenzione si focalizza indiscutibilmente su Piranesi, figura con cui credo di avere molte affinità. Lo considero uno dei più grandi artisti del passato, mi ritrovo molto nel suo pensiero, nella sua visione. Piranesi era figlio del suo tempo e dell'idea neoclassica circa l'immutabilità del tempo. Vedeva nella Roma antica l'incarnazione dell'ideale puro, eterno, immutabile. Avrebbe desiderato fissare quella perfezione per poterla perpetuare. Ha comunque vissuto un violento contrasto interiore, combattuto tra l'idea di far rivivere la classicità dell'impero romano come modello di immutabile perfezione, e d'altra parte consapevole che quest'ultima ci sia pervenuta solo in frantumi e rovine, ovvero che il mondo sia soggetto al tempo, alla trasformazione, e dunque alla dissoluzione. Da qui la sua ossessiva catalogazione dei reperti. Come se della perfezione non si potesse far altro che catalogarne brandelli. Piranesi artista tragico".

lunedì 18 marzo 2013

Tre domande a Gian Paolo Guerini

Ogni tentativo di esprimere ciò che i codici e i linguaggi elaborati dall'uomo non possono rappresentare finisce per risolversi nella scoperta della necessità del silenzio. La volontà di "trattenere l'indicibile" è la scelta che ha dato sostanza all'operare artistico di ingegni multiformi come quello di John Cage, di Bob Kaufman o di Giuseppe Chiari. L'interazione e la comunicazione artistica sono dunque possibili? E se lo sono, trovano senso nel nascondersi o nel rivelarsi?
Credo che il realizzarsi dell'opera comporti sempre una vanificazione dell'idea originale. Una discrepanza tra il pensato e il realizzato. Che il tentativo sia: "Agire e non sapere - l'annientarsi nel manifestarsi - infondatezza e vanificazione"? Oppure: "Bisogna stare sempre molto vicini a non fare niente, ma farlo"? C'è sempre una zona che si dilata e si contrae, tra l'inizio e la fine: a volte questa zona sembra un oceano affrontato con una barchetta, altre volte sembra assottigliarsi da sembrare impercettibile. Forse, fare è semplicemente la sua smentita. Proviamo a pensare all'orizzonte, che unisce mentre divide.

Non è possibile osservare ciò che non è dato vedere, se non ad occhi chiusi. Ci sono cose che non è possibile sapere, se non eliminando la consapevolezza. C'è arte capace di farsi da sola, utilizzando l'artista come tramite inconsapevole, ma c'è anche arte che deve essere creata, attraverso la mediazione razionale dell'individuo. La perfezione risiede nell'equilibrio tra materialismo e misticismo?
C'è sempre il rischio di avvicinarsi a un'opera privi di ignoranza. Nell'ansia di volerla comprendere, senza avvicinarsi ad essa nell'abbandono. Léon Bloy in Esegesi dei luoghi comuni: "Fate leggere al vostro medico, al vostro dentista, al vostro impresario di pompe funebri, al vostro impagliatore, al vostro notaio [...] una vivida e naturale strofa di Paul Verlaine. Che cosa vi risponderanno? 'Non capisco; eppure non sono più stupido degli altri'. L'universale superiorità dell'uomo il quale non è più stupido degli altri! Non conosco niente di più schiacciante". Credo che la perfezione non risieda da nessuna parte: ogni opera deve trascinarsi appresso un angolo buio, che le dia la possibilità di rivelarsi. Svelarsi e ri-velarsi. Chissà... Forse potrebbe bastare una inconsapevolezza generale.

Ha raccolto con grande cura tutto il suo lavoro, sterminato e estremamente vario, in archivi che ha reso poi disponibili in rete. Dal suo sito web è possibile scaricare gratuitamente in formato PDF gran parte delle sue pubblicazioni, ma anche materiale audio e video che documenta in maniera puntuale la sua complessa ricerca. Le sue scelte la qualificano come artista per necessità e non per professione o per convenienza. Cosa ha determinato la distanza da un sistema condizionato dal mercato? Ha mai commercializzato la sua poesia e la sua arte?
Il fatto di non essere entrato completamente in un mercato credo dipenda dal fatto di non aver mai mantenuto una "coerenza di facciata", un io di rappresentanza che duplichi sempre se stesso. L'uso di materiali diversi non vuole certo trarre in inganno il fruitore, eppure... C'è un filo rosso che segue tutte le mie opere, che io, riguardandole, vedo a volte permeate da uno sfoggio di banalità, per cui non mi capacito perché risultino oscure. Non mi sono mai opposto perché se ne possano andare altrove; quando se ne sono andate, ho avuto l'impressione che il cerchio si chiudesse; la felicità di riportarle all'idea originale.


Gian Paolo Guerini è nato toro verso la metà del XX secolo in una piccola città equidistante da Milano, Bergamo, Brescia, Cremona, Pavia. Ha studiato dai Gesuiti coltivando una avversione totale verso il dogmatismo, prediligendo incondizionatamente la "via negativa". Ha diretto una ridicola rivista saltuaria ed effimera di materia poetica TeatroDelSilenzio. Ha proposto il suo ascoltabile in varie letture pubbliche, ha esposto il suo visibile in diverse gallerie, ha suonato o fatto suonare la sua musica: a volte chiedendo, altre perché portatovi dalle circostanze, ma sempre un po' perplesso e sospettoso. Non ha voluto laurearsi in teologia. È docente di letteratura trascendentale presso l'Università dell'Oblio nella terra desolata, dove tiene regolarmente corsi per liberare la scrittura dalla cultura. I suoi testi sono stati tradotti in inglese da Luigi Schenoni (traduttore italiano di Finnegans Wake), Paul Vangelisti e Luther Blissett. Dopo Crema, Brescia, Bergamo, Berlino, Parigi, Livorno, New York, Bologna, Fort Kochi, vive tra Torino, Roma, Ljubljana. Ha selezionato i testi per la rivista di fotografia Private (dal numero 32 al 40). Ha due figli che vivono con la loro mamma. È felicissimo con la sua donna e un nuovo figlio, in una piccola casa con un terrazzo pieno di fiori bianchi e attende paziente che le cose che devono accadere accadano.

Per approfondire:

giovedì 14 marzo 2013

Una Biennale impossibile

Nel suo intervento di presentazione per Il Palazzo Enciclopedico (questo il titolo scelto per la 55esima Esposizione Internazionale d'Arte di Venezia) Massimiliano Gioni scrive: "Il Palazzo Enciclopedico emerge come una costruzione complessa ma fragile, un'architettura del pensiero tanto fantastica quanto delirante. Dopo tutto, il modello stesso delle esposizioni biennali nasce dal desiderio impossibile di concentrare in un unico luogo gli infiniti mondi dell'arte contemporanea: un compito che oggi appare assurdo e inebriante". Parole che sembrano voler rappresentare l'impossibilità di concentrare oggi, in un'esposizione biennale, la complessità dell'arte contemporanea. Poter realizzare una selezione realmente rappresentativa della produzione artistica nell'era digitale è impresa troppo pretenziosa: almeno quanto quella di riuscire a condensare in un palazzo l'intera conoscenza umana. Una premessa teorica volta a sottolineare l'arbitrarietà di una selezione operata per mezzo di criteri di gusto che rinunciano all'oggettività. Tra gli oltre centocinquanta artisti invitati, più di quaranta non sono in vita e i giovani non sono moltissimi. Intervistato da Adriana Polveroni per Exibart, Gioni ha dichiarato: "Il modello Biennale, come vetrina di artisti, del 'nuovo', appartiene agli anni Novanta. È un modello che è diventato sempre più complice del mercato e che mi ha stancato. Non solo me, penso, ma anche gli artisti. E penso sia il momento di proporre qualcosa di diverso, di più complesso". Non mancano quindi sorprese, outsider e autodidatti, a partire proprio da Marino Auriti, l'artista italo-americano che ha fornito al curatore, con un suo progetto mai realizzato, l'ispirazione per il concept. Tuttavia, scorrendo la lista degli artisti invitati, compare qualche nome che non sembra assolutamente tra i più adatti a simboleggiare lo sforzo umano di "costruire un'immagine del mondo quando il mondo stesso si è fatto immagine". L'esposizione sarà aperta al pubblico da sabato 1 giugno a domenica 24 novembre 2013, ai Giardini e all'Arsenale. Sarà davvero una Biennale "diversa", capace di suggerire che non esiste un unico mondo o un unico sistema dell'arte, ma tanti punti di vista individuali, da cui guardare con sensibilità differenti?

martedì 5 marzo 2013

Fenomenologia del capolavoro

Per quanto si possa guardare con interesse al trend filosofico "realista" e alla prospettiva di un "ritorno all'ontologia", non è possibile fare a meno di riconoscere che molti fenomeni legati alla ricezione di massa dei prodotti culturali siano fondati su una costruzione sociale più che su un criterio oggettivo di gusto. L'idea condivisa che un oggetto artistico sia un "capolavoro" passa necessariamente per dinamiche di mitizzazione che sono profondamente antirealiste. Non a caso gli anni Sessanta e Settanta (i decenni centrali della postmodernità) sono stati gli anni dei più pervasivi fenomeni di costume e hanno creato miti inossidabili (i Beatles o la Pop Art, per fare un paio di esempi). Oggi le dinamiche d'exploitation hanno accorciato sempre più i tempi di vita di "miti", "star" e "hit", diffondendo la percezione che non esistano più "capolavori", ma mode passeggere. In realtà la produzione culturale è diventata più ricca e più varia, con un'esplosione di contenuti collegata alla democratizzazione del sapere e all'accessibilità dei mezzi di produzione, anche a livello amatoriale. Sono cambiate profondamente le modalità di fruizione e troppo spesso, purtroppo, opere di grande valore restano voci nel deserto. Bisogna però ammettere che l'esistenza della "costruzione sociale/capolavoro" non è legata alla qualità dei prodotti artistici, ma al grado di condivisione sociale dei gusti. Le difficoltà che quest'epoca incontra nella produzione di capolavori sono probabilmente sintomi di una graduale emancipazione dalla massificazione culturale postmoderna. La costruzione di percorsi estetici individuali è forse il risultato dello spaesamento generato dalla ricchezza dell'offerta e dalla sovraproduzione, ma è pur sempre una forma di reazione all'impoverimento culturale. Per questo motivo, nella consapevolezza della perdurante irrilevanza dell'intrattenimento mainstream, la critica (in ogni settore) dovrebbe incentivare la creazione di percorsi paralleli e alternativi, più che cercare con ostinazione i "capolavori". Compito difficile, perché richiede la capacità di sapersi orientare nella ricchezza e nella varietà del complesso panorama contemporaneo, abbandonando le "classifiche". Compito nello stesso tempo ingrato, perché rende viaggiatori solitari, mentre gran parte del pubblico continua a subire passivamente il rating e si orienta verso i prodotti sul podio. Non si tratta, dunque, né di cavalcare le tendenze, né di crearne di nuove: solo di aprirsi alla complessità del reale.