giovedì 14 maggio 2015

Beuys, Koblin e il Turco meccanico

Probabilmente nessuno ha mai preso più alla lettera il detto di Beuys, secondo il quale tutti gli uomini sarebbero artisti, di Aaron Koblin. Il noto designer e programmatore americano, conosciuto soprattutto per i suoi progetti di crowdsourcing art, utilizza già da parecchi anni la piattaforma di Amazon Mechanical Turk per realizzare imponenti opere collettive, in cui affida a migliaia di lavoratori virtuali semplici compiti, come ad esempio riprodurre frammenti di immagini per mezzo di un intuitivo software di disegno. Eppure, se letteralmente tutti gli esecutori materiali coinvolti compiono un gesto che si potrebbe definire "artistico" in virtù del suo esito, non c'è da parte loro alcun coinvolgimento da un punto di vista espressivo o comunicativo, poiché tale gesto non è altro che una prestazione, in risposta a un preciso incarico e in cambio di un (seppur misero) compenso. Una massa di individui anonimi e sparsi per il mondo contribuisce inconsapevolmente a un processo creativo del quale solo l'ideatore ha la visione d'insieme. In altre parole, l'intervento umano perde ogni sua intenzionalità e si riduce a pura variabile determinata dal caso. L'abilità con cui Koblin riesce a coordinare la caotica e frenetica attività di sottopagati workers a caccia di pochi centesimi di dollari sta tutta nel rendere irrilevante l'approssimazione con cui i singoli compiti sono eseguiti, riducendo al minimo l'impatto dell'operato individuale nel concretizzarsi del lavoro collettivo. Così ogni disegno realizzato dagli utenti di Mechanical Turk corrisponde a una minuscola parte dell'immagine finale che, esattamente come accade in un dipinto divisionista o in una foto digitale composta da pixel, è perfettamente leggibile, anche se, osservata nel dettaglio, ricalca sommariamente la realtà. Qualcosa di simile avviene all'interno dei suoi video, nei quali è il singolo frame a essere ottenuto grazie al crowdworking, oppure nel progetto Bicycle Built For 2.000, in cui la melodia della canzone Daisy Bell è cantata da più di duemila voci umane differenti. Koblin sfida il caso, cercando di annullare l'imprevedibilità degli eventi moltiplicandone il numero a dismisura e scommettendo sul verificarsi dell'ipotesi più probabile, in base alla quale il suo progetto originario è portato a compimento con una discreta approssimazione. Il risultato finale corrisponderà alle aspettative in maniera inversamente proporzionale all'incidenza del singolo frammento sull'intero processo di realizzazione. Dunque il segreto per dominare il fato sta nell'ingabbiarlo in una griglia razionalmente costruita pianificando il succedersi di innumerevoli eventi, il cui esito è pronosticato attraverso un calcolo probabilistico. Il poker si basa sugli stessi principi: il giocatore esperto ha bisogno di giocare constantemente per lunghi periodi affinché la sua strategia basata sul calcolo delle probabilità si riveli proficua. Infatti l'inevitabile varianza tende a livellarsi e ad approssimarsi ai risultati attesi solo considerando un grande numero di mani giocate.
Volendo tentare una lettura critica dei più riusciti progetti di Koblin, come The Sheep Market e Ten Thousand Cents, molti hanno messo in evidenza la vena polemica rispetto a un modello di telelavoro che promuove forme di autosfruttamento e porta all'estremo la precarizzazione, ma pochissimi hanno colto le implicazioni filosofiche dei processi aleatori e disumanizzanti innescati dalla sua crowdsourcing art. In tal senso offrono spunti molto interessanti anche i Seed Drawings ideati da un altro artista americano: Clement Valla. Si tratta di grandi disegni realizzati anche in questo caso da migliaia di workers su Mechanical Turk, ai quali è chiesto di copiare uno stimolo iniziale. Dal momento che, dopo ogni riproduzione, la copia va a sostituire l'immagine di partenza e diventa nuovo stimolo, il risultato finale dipende da una serie di interazioni volutamente innescate dall'artista, che rinuncia al pieno controllo sul processo creativo.
In Italia la pratica del crowdfunding è stata minuziosamente esplorata da un gran numero di operatori culturali, trovando ampia diffusione e applicazione nei campi più disparati. Invece, nonostante le sue infinite potenzialità, il crowdsourcing non riscuote ancora troppo successo tra i creativi nostrani. Anche gli artisti che lavorano in maniera più specifica con i nuovi media sembrano poco interessati a sperimentare forme innovative di partecipazione, magari attraverso modalità più etiche e consapevoli di quelle adottate dai colleghi statunitensi. Sarebbe interessante interrogarsi sui motivi di una simile indifferenza rispetto alla questione dell'intelligenza collettiva, provando a rintracciare alcune tra le possibili cause di questa aggiornatissima manifestazione del proverbiale individualismo italiano. Da un lato il gap tecnologico rappresenta sicuramente un ostacolo significativo, ma un peso forse maggiore hanno le idiosincrasie radicate nel tessuto antropologico e sociale, storicamente impermeabile alla logica comunitaria.

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