lunedì 2 marzo 2015

Tre domande a Roberto Ago

Il tuo modus operandi mi sembra essere, in qualche modo, frutto della stessa tendenza antispecialistica che unisce idealmente, in un percorso che si snoda dalla seconda metà del Novecento ai giorni nostri, personalità molto diverse, come ad esempio quella di Bruno Munari o di Maurizio Cattelan. La confusione e la sovrapposizione dei ruoli sono una cifra del nostro presente: quali sono i vantaggi e i difetti di un simile approccio?
Innanzitutto grazie dell'interesse e dell'accostamento ai due illustri italiani, certamente immeritato. A fronte di un'attività multiforme che mi vede soprattutto scrivere e realizzare lavori – mentre curo mostre in misura trascurabile, almeno per il momento –, in realtà si tratta sempre del medesimo sguardo "iconologico". Da un po' di tempo tuttavia la mia principale occupazione è lo studio, in vista di un saggio illustrato molto complesso e una seconda laurea in filosofia. Non mi limito mai alla mera indagine iconografica, ma innesto creatività e conoscenza sui testi visivi che mi propongo di interrogare. Penso, ad esempio, a un intervento come quello su Charlie Hebdo e l'attentato di Parigi: senza l'orizzonte concettuale riconducibile a un pensatore fondamentale come René Girard, sia il testo che le tavole che lo illustrano risulterebbero di difficile comprensione così come, a mio avviso, l'attentato stesso. Idem per la ricognizione breve sullo stato dell'arte contemporanea intitolata "Opera chiusa": o si mastica un minimo di semiotica applicata al testo visivo, o non si ha la più pallida idea dello statuto linguistico dell'arte, con il rischio purtroppo diffuso di scivolare in molti giudizi fallaci. Viceversa, senza una dose di creatività l'indagine iconografica che ho dedicato all'11 settembre non avrebbe toccato le attuali cinquantatré tavole – molte delle quali esposte al Premio Cairo e andate letteralmente a ruba –, né il celebre croissant con farfalla di Urs Fischer le innumerevoli letture interpretative che sono riuscito a collezionare.
Per quanto riguarda la confusione dei ruoli, personalità trasversali sono sempre esistite, non mi pare una novità specie se guardiamo all'estero. Se alludi a Cattelan che cura una mostra, nulla di speciale, chiunque s'intenda davvero d'arte contemporanea, e naturalmente a parità di contatti e potere contrattuale, potrebbe fare altrettanto e anche meglio. Quello del curatore è un mestiere molto sopravvalutato, per esercitarlo basta avere buone relazioni ma soprattutto buon occhio. Molti curatori non sbagliano la mostra, sbagliano gli artisti; oppure inciampano su un tema espositivo didascalico e ancora peggio "impegnato", il vezzo attualmente più di moda. L'artista e il gallerista bravi sono spesso i curatori migliori, entrambi hanno un'ottima materia prima a disposizione e sono campioni nell'allestimento, che se ben fatto vale più di mille pretesti espositivi. Cattelan lo ha dimostrato, mentre si dia a un Massimo De Carlo il Padiglione Italia, e state sicuri che farebbe meglio di molti curatori in circolazione. Poi certo c'è la capacità di leggere la contemporaneità, un valore aggiunto che è appannaggio di pochi ma che non va preso alla lettera: se un curatore militante tipo Gioni non può che viaggiare in lungo e largo alla scoperta di talenti inediti da convogliare in un unico appuntamento, uno meno esplorativo può dedicarsi al lavoro di fino con risultati perfino più interessanti.

A proposito del tuo breve saggio "Opera chiusa": sulla base di una rapida ricognizione del presente, suffragata da una rappresentativa esemplificazione, proponi un approccio alle questioni estetiche fondato sull'assunto (dal sapore postmoderno) che ogni possibilità espressiva sia stata ormai ampiamente esplorata. Ciò costringerebbe gli artisti contemporanei a "pratiche progressivamente illustrative quando non didascaliche nei confronti delle produzioni precedenti e di conseguenza del mondo". Provando ad andare oltre le doverose constatazioni e le sane provocazioni, pensi sinceramente che non si possa fare altro che "prendere coscienza della situazione con realismo in vista di opere chiuse almeno convincenti"?
Più che pensarlo si può constatarlo, non sono certo il solo (ultimamente Bonami). A partire dalla data simbolica del 2001, non è emerso un solo nome su scala globale che abbia prodotto un'arte realmente innovativa, ma solo rimaneggiamenti anche pregevoli di cose già masticate. Perfino il più "differente" di tutti, Tino Sehgal, non fa che reificare la performance nell'illusione che il museo corrompa l'arte meno della sua riproduzione mediatica, quando una performance "ready made" è già riproduzione di un originale. La categoria estetica del "postmoderno" andrebbe spogliata delle sue innumerevoli etichette promozionali e riconosciuta per quella che è sempre: maniera. Che in arte è la regola, non l'eccezione, con in mezzo infinite sfumature di grigio. Per una sorta di riflesso condizionato si tende a credere che gli artisti debbano essere necessariamente innovativi, ma semplicemente non è vero. L'equivoco nasce da una memoria mal interiorizzata delle avanguardie storiche e delle successive sperimentazioni di metà e fine Novecento, momenti epici ma anche episodici di grandi rotture di codici e invenzioni linguistiche. Non viviamo quel tipo di fase, con in più una congiuntura storica inedita: la globalizzazione di marca occidentale. La postmodernità, lungi dal differenziarsi da una fantomatica "altermodernità" che, se anche fosse, le assomiglierebbe parecchio, è divenuta conditio sine qua non di un canone occidentale multiforme quanto si vuole, ma anche mappato in tutti i sui gangli. Dato un universo estetico progressivamente intertestuale e dove la "transcodifica" cara a Bourriaud è diventata la norma (spesso fine a se stessa), difficile dire se possa prodursi di nuovo rottura. Già una volta abbandonammo caverne, templi e cattedrali per lidi espositivi inediti e un'arte altrimenti inimmaginabile, forse dovremo attendere uno stravolgimento di quel tipo per rivivere l'ebbrezza di chi osservò i primi tagli di Fontana, gli igloo di Merz o i neon di Dan Flavin. Ma il fatto è che anche il disertare musei e gallerie in favore dei sentieri del mondo è diventato un formalismo codificato. In tutta franchezza, non vedo vie d'uscita a un ineluttabile accademismo globale.
Tuttavia, personalmente mi accontento, se non altro perché l'imago "by the artists" non costituisce più il mio interesse primario. Mi avvicinai all'arte contemporanea dopo il 2000, sufficientemente tardi da non aver vissuto in tempo reale le prime performance della Beecroft, l'avvento di Cattelan e di tutti gli altri protagonisti di quel decennio altamente innovativo che sono stati gli anni '90. Non ho mai avuto la fortuna di imbattermi in opere che destabilizzassero le mie coordinate estetiche (solo l'11 settembre c'è riuscito), posso soltanto immaginare cosa si provi e rilevare come l'arte degli anni 2000 non ci riesca. Fin da subito, legioni di artisti mi sono apparse un po' fiacche e ripetitive, ma anche molto intelligenti e sofisticate. La sapiente ipercodifica di talenti miei contemporanei come Sehgal, Guyton, Walker, Uklanski, Gaillard, Kuri, Martin, Kelm, Horowitz, Fischer e tanti altri, che non andrebbero confusi con i loro numerosissimi cugini di serie B e C, fa rimpiangere le più audaci invenzioni dei loro padri e nonni fino a un certo punto. Dopo l'attacco alle Twin Towers, che mentre coronava i ruggenti anni '90 inaugurava quel "Perverted Minimalism" che avrebbe contrassegnato il decennio successivo, l'arte ha guadagnato in domesticazione e raffinatezza ciò che ha perso in forza e originalità: stiamo vivendo una fase storica che senz'altro definirei di "manierismo sperimentale".  

Se è vero che la raffinatezza "addomesticata" di cui parli può in molti casi effettivamente essere di maniera, bisogna anche riconoscere che le ragioni profonde del rifiuto degli eccessi postmoderni e delle acrobazie provocatorie degli anni Novanta risiedono in una consapevole elaborazione del vuoto ideologico, morale e politico dei nostri tempi. Nella prima risposta hai chiaramente detto che consideri un certo tipo di "impegno" il "vezzo attualmente più di moda". Potresti provare a fare qualche esempio concreto delle pratiche e delle strategie che ti sembrano più ingenue e inefficaci, facendo riferimento in particolare alla giovane arte italiana? Quali sono invece i percorsi di ricerca che ritieni interessanti e stimolanti?
Sarei cauto nel considerare l'arte degli anni '90 come una serie di acrobazie e provocazioni, anche se queste certamente non sono mancate. Non credo che valutazioni di tipo sociologico possano illuminare più di tanto quel gioco di società trans-generazionale che è l'arte, il quale è fatto di mosse e contromosse prettamente linguistiche anche quando le fanfare gridano al collasso&avvento di qualsivoglia orizzonte ideologico. Un Sibony e un Ruby non rispondono tanto a un vuoto ideologico, quanto a un pieno semiotico che li ha preceduti. Poi puoi leggerli come due araldi del "low-fat" post-11 settembre, ma direi che la sottospecie del "Neo-Minimalismo" e la variante del "Perverted Minimalism" li inquadrino meglio e senza inquinanti ideologici altamente opinabili. Per quanto riguarda, invece, la questione di un'arte engagé, posso dire che le due opere di Correale descritte in "Opera chiusa" rappresentano un caso esemplare di produzioni assai problematiche ancorché impegnate, per i motivi là riportati. Viceversa, i percorsi di ricerca che reputo interessanti sono gli stessi di una Storia dell'Arte: quelli che veicolano un rilancio estetico-linguistico non necessariamente dirompente e che se anche contempla contenuti edificanti, non ne fa il suo passaporto. Passino gli artisti, ma quanti curatori ignorano oggi questa distinzione fondamentale, equivocando il reale valore di produzioni maldestre che hanno il solo pregio di citare Pasolini o i sempreverdi "meccanismi del potere"? In "Opera chiusa" ho cercato di scattare l'istantanea di un impasse creativo che è sotto gli occhi di tutti e tuttavia ignorato, e che siccome è ben lungi dallo scorgere quel "capolinea duchampiano" che Bonami, da lucido osservatore qual è, può solo auspicare ma non annunciare (come invece fa Bourriaud), andrebbe affrontato di petto in vista di quel manierismo di qualità di cui sopra.
Venendo all'Italia, ultimamente sono incuriosito da Alterazioni Video, ai quali non riconosco afflati identitari, ma epigonali di mondi altri rispetto all'arte. Anche se è presto per sbilanciarsi, pur di svecchiare e di non fare la solita figuraccia avrei dato interamente a loro il prossimo Padiglione Italia. Dopo le solite tre o quattro star che non a caso sono emerse negli anni '90, reputo valide le ricerche di Pessoli, Roccasalva, Carrubba, in parte Gabellone (troppo indeciso tra internazionalismo e tradizione), Favelli, Gennari, Caravaggio, tutti a loro modo "copioni" di una inconfondibile "scuola italiana". Hanno capito che, in caso di koinè artistiche ipercodificate, oggi come allora è meglio copiare consapevolmente un originale di rango apportando qualche modifica – io ad esempio copio volentieri Warburg, migliorandolo –, che illudersi di essere originali mentre si ricalcano degli stilemi impersonali. Sorpreso? Alla lunga, potrebbero essere loro le figure più consistenti della storia – un po' decadente – dell'arte italiana di inizio secolo, paradossalmente perché più reazionarie e impermeabili alle mode di tante altre. Ci vorrebbero una mostra e un testo fuori tempo massimo che li traghettassero, curatore autolesionista compreso, in una Storia dell'Arte Italiana magari non esaltante, ma certa e imperitura; il rischio concreto, altrimenti, è che i meno in vista tra loro continuino a confondersi nella palude fino a restarci definitivamente, e che i più blasonati vengano ridimensionati fino a ritrovare delle sabbie mobili sempre in agguato.
Per il resto, gli artisti italiani spariranno quasi tutti, residenti all'estero compresi. Solo qualcuno approderà a una fama e mercato nazionali quando non regionali, che in un mondo globale equivalgono pressoché al nulla. Finora l'Italia ha in gran parte fallito il suo appuntamento con l'arte globalizzata post-2001, sdoganando o identità forti ma arroccate, o epigoni all'assalto di un "international style" che, per un comprensibile diritto di primogenitura, non ammette repliche (come Favaretto, Assaël, Maloberti, Vascellari, Trevisani, Di Martino, Biscotti, Alis/Filliol, ecc.). Non è affatto semplice, per un artista di provincia qual è oggi chi si formi nel Belpaese – emigrare successivamente è condizione necessaria ma non sufficiente –, perseverare nella tradizione, trovare un compromesso soddisfacente o tentare un tradimento radicale. Una cosa sola è certa: finché tre luoghi cardine del nostro sistema dell'arte come formazione, promozione e informazione insisteranno nello status quo, continueremo a collezionare fallimenti.


Roberto Ago è un iconologo. Immerso nell'ipertesto della visione come un archeologo nella stratigrafia del terreno, dedito ad un'ermeneutica creativa volta ad indagare, ancorché ispirata alla grande tradizione warburghiana, in primo luogo la contemporaneità, si produce nell'interpretazione, decostruzione e critica di reperti iconici rinvenuti negli ambiti più disparati, a cominciare naturalmente dalle arti visive. Le sue indagini si avvalgono indifferentemente del critico d'arte, dell'artista visivo e, in misura minore, del curatore dedito alla ricontestualizzazione di poetiche e display espositivi.

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